dalla predicazione del 21 Febbraio 2010
Lettura da Giovanni 2:1-12
Gli accadimenti di Cana sono, ancora una volta, forieri di riflessione. Un altro personaggio attira la nostra attenzione, colei che funge da anello di congiunzione tra Gesù ed i servitori: Maria, Sua madre. Rileggendo i fatti di Cana con gli occhi di Maria, parleremo di intercessione. Dalla predicazione del Pastore Raffaele Lucano 07 Marzo 2010Il suo accorato appello “Non hanno più vino” (v.3), sembra suscitare un brusco riscontro da parte di Gesù, “Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta”(v.4), tuttavia rende maturo il tempo per il Suo primo palese miracolo. Subitanea emerge la consapevolezza che Maria è sottomessa a Gesù, ubbidiente, favorita dalla grazia, ma non divina, bensì umana. Meritevole della nostra stima e del nostro rispetto, ma non della nostra adorazione. Solo il Signore ne è degno. A suffragare tale evidenza, si pone anche la stessa nascita di Gesù da una vergine, per esclusiva volontà di Dio e azione dello Spirito Santo. Tale miracolo, accettabile solo esercitando la fede, poiché non trova il benché minimo riscontro fisico, si esaurisce, infatti, con Gesù, non continua in Maria, poiché non ha più ragione di persistere. Ella, dunque, concepisce naturalmente e partorisce altri figli e figlie: “Dopo questo, scese a Capernaum egli con sua madre, con i suoi fratelli e i suoi discepoli, e rimasero là alcuni giorni.”(v.12); “Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?” (Matteo 13:55-56) Non solo è errato venerarla, risulta altresì diabolico, in quanto, in tal modo, l’adorazione è distolta dal Signore, unico legittimo destinatario. Maria è presente alla festa di nozze, si fa partecipe della situazione, facendosi carico del problema e, umanamente, si rivolge direttamente a Gesù con la certezza che Egli risolverà ogni cosa. Ella stessa è consapevole che solo Gesù può operare e, non solo confida in Lui, in buona fede, ciò infatti non sarebbe sufficiente, bensì Gli è sottoposta. Allo stesso modo, anche noi dobbiamo fare esperienza con Gesù personalmente, attraverso la Parola di Dio. Non possiamo essere salvati per procura! Dal testo biblico non evinciamo molte informazioni, tuttavia, non necessitiamo di conoscere dettagliatamente il contesto, poiché è il parlare perentorio di Maria a catalizzare la nostra attenzione: “Fate tutto quel che vi dirà” (v.5). e non “fate tutto quello che io vi dirò”. Ella può solo, come noi, umanamente, intercedere presso Gesù. Ai fini della salvezza solo Gesù può operare, e l’intercessione non nasconde né contraddice la verità: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”(Giovanni 14:6). Gesù, divinamente, prima e soprattutto, salva la nostra anima, poi, umanamente, simpatizza con la sofferenza e patisce fisicamente, quando tutti i nostri peccati sono inchiodati alla croce. Egli ha il controllo della nostra vita, delle minime e più intime situazioni. Se sbagliamo, Egli intercede per noi presso il Padre, non ci nasconde a Lui, non giustifica il nostro peccato, piuttosto ci giustifica come peccatori, perché per ogni nostro errore commesso, Lui ha già pagato per noi. Egli chiede che l’ira di Dio si scagli su di Lui, affinché noi siamo perdonati: “Chi sarà quel che li condanni? Cristo Gesù è quel che è morto; e, più che questo, è risuscitato; ed è alla destra di Dio; ed anche intercede per noi” (Romani 8:34). La Scrittura, nell’Antico Testamento, ci propone Giobbe come modello d’intercessione e figura di Cristo. Giobbe è conosciuto per la sua affezione per Dio. I tre amici, cercano una giustificazione, ma sebbene in buona fede, sbagliano. Dio stesso offre la soluzione, non li perdona direttamente, comanda che sia Giobbe ad intercedere per loro: “Ora dunque prendete sette tori e sette montoni, andate a trovare il mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi stessi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi e io avrò riguardo a lui per non punire la vostra follia, poiché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe». Elifaz di Teman e Bildab di Suac e Zofar di Naama se ne andarono e fecero come il Signore aveva loro ordinato; e il Signore ebbe riguardo a Giobbe.” (Giobbe 42:8-9). Siamo giustificati grazie all’Amore di Dio in e per Cristo. Non solo, avendo creduto in Gesù, il Figlio di Dio, riceviamo il suggello dello Spirito Santo, e troviamo completezza nel dono del battesimo nello Spirito Santo, nella Sua potenza, realizziamo, al pari dei centoventi nell’alto solaio, il Paracleto, il Consolatore, l’Avvocato che intercede con sospiri ineffabili: “Allo stesso modo ancora, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché non sappiamo pregare come si conviene; ma lo Spirito intercede per noi con sospiri ineffabili” (Romani 8:26). Quando siamo senza forze, ci ricorda il consiglio della Parola, ci consola, ci riprende, ci guida in tutta la verità. Sebbene Dio decida da Sé, possiamo e dobbiamo intercedere per i nostri fratelli; pur non avendo facoltà di mutare il corso degli eventi, portando il peso dei fratelli entriamo a far parte della loro vita. Intercedere significa: perorare la causa di qualcuno alfine di fargli ottenere un favore. Egli desidera, infatti, che portiamo i pesi gli uni degli altri e che si compia il miracolo dell’unità e dell’amore. Ciò è necessario affinché adempiamo alla Legge di Cristo: “Gesù gli disse: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: Ama il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti.” (Matteo 22:37-40). Quando promettiamo di intercedere in preghiera per qualcuno, dobbiamo mantenere la parola data, non possiamo scordarcene. A tal proposito, la Scrittura ci rimanda alla figura di Giuseppe. Apparentemente, Dio, che ha ben altri progetti per lui, sembra non tenere in conto l’integrità dell’uomo, che, sebbene innocente, viene imprigionato a motivo dell’inganno della moglie di Potifar. Durante la sua permanenza in carcere, egli interpreta i sogni di due suoi compagni di cella: il coppiere ed il panettiere del Faraone (Genesi 40:1-23). A motivo della benevola e verace interpretazione a favore del coppiere, Giuseppe gli raccomanda di perorare la sua causa davanti al Faraone (v.14), ma, il coppiere, una volta libero, se ne dimentica (v.23). Questa leggerezza causa a Giuseppe, il prolungamento della sua detenzione, per altri due anni. Talvolta accade che, non appena liberati da una situazione di angoscia, ce ne dimentichiamo e siamo testé pronti, a criticare quanti sono nell’afflizione. Iddio ci aiuti ad essere sensibili, a non sminuire o addirittura dimenticare i travagli del nostro fratello e del nostro vicino. Cogliamo un sublime modello di intercessione a favore di Onesimo, schiavo fuggito dal suo padrone, nella lettera di Paolo indirizzata appunto a Filemone. Leggiamo dal testo biblico: “ti prego per mio figlio che ho generato mentre ero in catene, per Onesimo, un tempo inutile a te, ma che ora è utile a te e a me. Te lo rimando, lui, che amo come il mio cuore. Avrei voluto tenerlo con me, perché in vece tua mi servisse nelle catene che porto a motivo del vangelo; ma non ho voluto far nulla senza il tuo consenso, perché la tua buona azione non fosse forzata, ma volontaria. Forse proprio per questo egli è stato lontano da te per un po’ di tempo, perché tu lo riavessi per sempre; non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello caro specialmente a me, ma ora molto più a te, sia sul piano umano sia nel Signore! Se dunque tu mi consideri in comunione con te, accoglilo come me stesso. Se ti ha fatto qualche torto o ti deve qualcosa, addebitalo a me.” (Filemone v.10-18) Onesimo, a motivo della sua conversione, pur essendo rinnovato nello spirito, non ha, tuttavia, emendato la sua posizione umana e sociale. Al tempo dei fatti descritti, il padrone aveva diritto di vita e di morte sul suo schiavo e, solitamente, uno schiavo fuggito e ripreso, non veniva risparmiato. Paolo dunque, intercede presso Filemone affinchè il “nostro caro fratello e compagno d’opera” (v.1), venga riaccolto in pace, e non più come schiavo, bensì come fratello in Cristo, offrendosi di riscattare ogni eventuale debito personalmente. L’intercessione merita dunque una seria e responsabile trattazione, affinché ognuno di noi possa dire a se stesso prima e, amorevolmente, al fratello poi: “Fai tutto quello che Gesù ti dirà!” Amen!
Pastore Raffaele Lucano