Passaggio ponte

dalla predicazioni del 26 Febbraio 2012

Lettura della Lettera a Filemone

La brevità dello scritto è inversamente proporzionale alla sua profondità spirituale e pedagogica. Paolo dal carcere a Roma scrive a Filemone circa Onesimo. Inquadrando storicamente gli eventi, sappiamo che il padrone aveva diritto di vita e di morte sul suo schiavo, e quest’ultimo era ben consapevole della sorte che gli sarebbe toccata, una volta catturato e riportato indietro.

 

Dal testo conosciamo i personaggi: Filemone è un fedele collaboratore nell’opera, nella sua casa si riunisce la Chiesa, pertanto, sebbene non ufficialmente, possiamo riconoscere in lui un pastore. Onesimo è il suo schiavo, probabilmente ladro, sicuramente ribelle e fuggitivo. Paolo, non necessita certo di ulteriori presentazioni: è l’apostolo dei gentili, detentore di grande autorità ed autorevolezza spirituale. Onesimo, in fuga, conosce Paolo a Roma e, a motivo della sua testimonianza si converte. Possiamo dunque, a questo punto, considerare un “quarto” personaggio: la relazione che unisce i tre, la fratellanza in Cristo. Diciamo di più, la fratellanza è, in un certo qual modo, la protagonista della storia, perché tale relazione “modella” il carattere della lettera. Infatti, sebbene Paolo avesse l’autorità di imporre a Filemone di perdonare e riaccogliere Onesimo (v.8-9), lo esorta con autorevolezza fraterna e lo spinge a “scegliere” di farlo (v.14;16).  Anche noi, nella condizione di peccatori, ci siamo allontanati dal nostro Padrone. Anche noi, ribelli, siamo fuggiti da Dio. Tuttavia, abbiamo conosciuto Gesù, il quale, attraverso la sua espiazione vicaria, ci permette di ripristinare la relazione. Ecco le tre figure: Onesimo schiavo (noi peccatori) fugge da Filemone (Dio Padre) e Paolo (Gesù) intercede per Onesimo presso Filemone, non imponendo una volontà propria, in quanto la Trinità è sempre verace, bensì “accollandosi” il debito (v.18-19). I nostri peccati, infatti, ci sono perdonati da Dio a motivo del sacrificio di Gesù. Passiamo così da schiavi ribelli a figli di Dio e fratelli di Gesù. Se non cambia la nostra condizione sociale, cambia la nostra condizione spirituale: “Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa;” (I Pietro 2:9). Troviamo un parallelo nell’episodio del figlio prodigo, che riconosce la sua condizione, si pente, si ravvede e torna a casa, e del padre misericordioso, che lo attende, e, scorgendolo da lontano, gli corre incontro, non gli rinfaccia il suo comportamento con un “te l’avevo detto..!”, piuttosto lo abbraccia e lo riaccoglie in casa festeggiando il suo ritorno (Luca 15:11-31). Ne evinciamo chiaramente un insegnamento pratico: disporci al perdono. Tuttavia, l’amorevole autorevolezza fraterna esercitata da Paolo verso Filemone, non deve trarci in inganno: il perdono non è un’opzione, è un comando. Quindi possiamo correggere: dobbiamo necessariamente disporci al perdono. Umanamente è pressoché impossibile! Siamo, infatti, totalmente coinvolti dai nostri sentimenti: se qualcuno ci ha offesi, ci sentiamo dalla parte della ragione e ci sentiamo legittimati a pretendere soddisfazione del torto subito. Abbiamo tuttavia detto che è la nostra condizione spirituale ad essere cambiata, pertanto, dopo essere rinati in novità di vita, è il piano spirituale a dover essere teatro del nostro comportamento. Come membra del Corpo di Cristo ci viene richiesto di praticare il perdono. La nostra disposizione al perdono risulta essere direttamente proporzionale alla realizzazione personale del perdono ricevuto da Dio per mezzo di Gesù. Quanto più stimiamo in gran conto il perdono ricevuto e ne siamo riconoscenti, tanto più possiamo disporci a perdonare, rinunciando ad arroccarci sulle nostre posizioni, benché legittime. In Matteo 18:15-35 troviamo alcuni esempi; uno su tutti:  “Allora Pietro si avvicinò e gli disse: Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù a lui: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.” (v.21-22). Singolare è il pensare che a causare questo effetto ci sia il perpetuare un’offesa quattrocentonovanta volte … Iddio ci aiuti!

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