Lettura da Filippesi 4:1-3
L’Apostolo è consapevole di aver usato termini alquanto rigidi; è stato necessario al fine di sensibilizzare l’attenzione dei suoi lettori per la difesa della loro anima dagli attacchi di spiriti seduttori. Ora, però, la sua sensibilità di pastore lo spinge ad attenuare la tensione e ritorna a rassicurarli. Riprende il tono confidenziale, amorevole e si rivolge ai suoi lettori chiamandoli “fratelli cari, desideratissimi, allegrezza e corona … diletti”. Dovremmo soffermarci e approfondire ogni termine, capirne la profondità dei sentimenti, l’empatia, l’importanza che rappresentano i fratelli in Cristo per il cuore dell’Apostolo. Ci basta cogliere, in questa sede, l’esempio di stima e di amore che dovrebbero caratterizzare coloro che condividono la stessa fede. Quale “profumo” sentimentale, emotivo, delicato e gradevole emana il termine “corona mia”. Spesse volte si tende a enfatizzare gli aspetti negativi dei fratelli, le loro cadute, i difetti, il carattere non ancora arreso, la poca spiritualità, le debolezze.
Questo atteggiamento ci induce a svalutare, mortificare la figura dei fratelli e, soprattutto, a sminuire e rendere inefficacia l’opera trasformatrice di Cristo nella Chiesa (Romani 14:4). In questo piano di trasformazione è incluso l’atteggiamento e la considerazione errati verso i nostri fratelli (Matteo 7:3 – I Timoteo 3:15). Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere alla famiglia di Dio, a coltivare legami spirituali con persone che, seppur diverse nel carattere, sono unite nello Spirito. Per alcuni la diversità è motivo di lagnanza, invece nella diversità, spesso, c’è confronto e crescita. Fu grazie al buon Barnaba che l’Apostolo Paolo ebbe l’opportunità di convincere Giacomo e i fratelli della Chiesa di Gerusalemme, che la circoncisione della carne è inefficace a salvare (Colossesi 2:11). Il miracolo dell’amore si realizza e si manifesta nonostante la diversità (I Corinzi 1:10). Sembra che questo sentimento non vi fosse più tra due sorelle in Cristo. Non si conosce il motivo del loro litigio, ma la divergenza era talmente accesa che rischiava di condizionare, se non addirittura intaccare, l’armonia di tutta la Chiesa. L’Apostolo fu costretto ad esortare con veemenza Evodìa e Sintiche, due donne che nel passato furono di grande aiuto per la sua persona. Si trattava, quindi, di due cristiane, due diaconesse, due sorelle consacrate, ma che per motivi personali permisero alla discordia di incrinare l’affetto che li legava. La disputa era così accesa che arrivò sino a Paolo, in carcere a Roma. Probabilmente la divergenza fu anche sottoposta al giudizio dei tribunali umani. L’Apostolo si fa carico del problema e non potendo farlo di persona, incarica un suo “vero collega” di intervenire. Chi era mai costui? Forse Epofròdito che nel frattempo era giunto a Filippi? Era forse il conduttore (Clemente)? Un amico? Un anziano, saggio della Chiesa? Non si sa! Si sa solo che era una persona spirituale della quale Paolo si fidava. Egli aveva il compito di far ragionare le due donne e di riportare la pace nella chiesa. Questa circostanza è per noi foriera di alcune riflessioni di carattere etico. Prima di tutto dobbiamo ricordare che l’a more copre moltitudini di peccati (I Pietro 4:8). Ciò ci insegna che, semmai dovessimo subire qualche torto, dovremmo avere tale carità di sopportare qualche ingiustizia alfine di mantenere la pace (I Corinzi 6:7). In secondo luogo, dovremmo evitare situazioni di tensione emotiva che generano contese. L’Apostolo esorta a non discutere opinioni di carattere personale, in particolare con coloro che sono poco maturi (Romani 14:1). In terzo luogo, dovremmo evitare che la divergenza si allarghi al punto da coinvolgere e turbare la serenità della Chiesa (II Corinzi 13:11). Ed infine, dovremmo cercare di conseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione (Matteo 5:9 – Romani 14:19). A questo “fedele collaboratore” l’Apostolo estende l’invito di provvedere anche per “Clemente (forse si tratta di Clemente Romano, lo stesso che scrisse “Dovremmo dunque pensare a Gesù Cristo come a Dio, come al giudice dei vivi e dei morti e agli altri collaboratori i cui nomi sono nel libro della vita”(v. 3). Che consolazione per il pastore Paolo sapere che poteva contare su qualcuno di fiducia. Impossibilitato a farlo di persona, incaricò un fratello di cui si fidava ciecamente. Sapeva che avrebbe portato avanti le sue disposizioni senza esitare e senza recriminare. Costui aveva ricevuto un mandato ed il suo compito era di assolverlo senza indugi. Di questo Paolo era sicuro e poteva essere tranquillo. Possa il Signore suscitare tanti “leali collaboratori” coinvolti attivamente nell’opera anche se non chiamati ad uno specifico ministero. In mezzo a tanto amore, a tanto sentimento, una esortazione rivolta a tutti: State fermi! Non lasciatevi ingannare, resistete alle adulazioni, agli attacchi, alle persecuzioni, alla zizzania, … agli scandali. Rivestitevi della completa armatura spirituale al fine di non lasciarvi trasportare qua e la da ogni vento di dottrina. Rimanete saldi, confidando e ricevendo le forze che vengono da Dio (Efesini 3:13-21).