Non dobbiamo dimenticare cosa significhi essere perduti: la condanna eterna è così terribile che la nostra mente non riesce ad afferrarne completamente la portata. Dobbiamo fare in modo di raggiungere quanti vivono lontani da Dio, non aspettando passivamente che siano essi stessi facciano i primi passi verso la chiesa. L’impegno evangelistico deve caratterizzare la vita di ogni credente e quella di ogni comunità , perché questo è il comando che Gesù ci ha rivolto, nell’intento di avvalersi della strumentalità di semplici credenti con pochi mezzi ma ripieni della virtù dello Spirito Santo.
Lo stato di perdizione dell’uomo “Noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via; ma il Signore ha fatto ricadere su lui l’iniquità di noi tutti.” (Isaia 53:6) Quando l’uomo ha scelto di disubbidire a Dio, si è posto sotto il giusto giudizio di Dio ed è stato allontanato dalla Sua presenza. Allo stesso tempo, durante la sua vita terrena l’uomo può scegliere di riconciliarsi con Dio e ricevere la grazia divina. Scegliere di rifiutarla significa confermare la propria condanna eterna: “E la testimonianza è questa: Dio ci ha dato la vita eterna, e questa vita è nel Figlio suo. Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita. Vi ho scritto queste cose perché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio.” (I Giovanni 5:11-13). Nell’espressione “noi tutti” si conferma l’universalità del peccato: nessuno è escluso da questa condizione. Attraverso lo Spirito Santo, Isaia descrive ogni uomo come una pecora smarrita che vaga senza meta invece di seguire il Buon Pastore. Apparentemente alcuni sono più lontani da Dio ed altri meno, in realtà anche se taluni appaiano rispettabili se non accettano Cristo sono irrimediabilmente perduti. Nell’accezione comune si intende il peccato come il “compiere azione malvagie”, in realtà l’etimologia del vocabolo indica: “deviare, fallire il bersaglio, fallire, violare”. In questo contesto il peccato è un atto che si scontra con la volontà di Dio, una condotta illecita in contrasto con i principi e le norme stabilite dal Signore. Il peccato di Adamo ed Eva è l’essenza stessa del peccato e delle sue conseguenze: incredulità, disubbidienza, concupiscenza, durezza di cuore, superbia, alienazione da Dio. Come loro anche noi non siamo esenti dal peccato. La condizione dell’uomo peccatore è riassunta nell’espressione: “ognuno di noi seguiva la propria via”. L’uomo cioè preferisce seguire, soddisfare la propria volontà ed i propri interessi, piuttosto che prendere in considerazione la volontà di Dio. Decidere di attuare tale comportamento è squisitamente personale e nessuno può scaricare tale responsabilità su terzi. Come la scelta di allontanarsi da Dio è personale, così lo è la scelta di riavvicinarsi a Lui, comprendendo l’estrema gravità della conseguenza del peccato. In Romani 3:23: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, è racchiuso l’atto di accusa di Dio nei confronti dell’intero genere umano. Paolo si rivolge sia ai Giudei che millantano di seguire la legge di Mosè, mentre la sua violazione è palese, sia ai Gentili che rifiutano la testimonianza della creazione e della loro coscienza, eliminando ogni possibile giustificazione. Dal verso in esame si evince anche che non c’è intensità di peccato: non ci sono peccati piccoli o grandi. E facile pensare che i violenti e gli assassini siano perduti, tuttavia anche le cosiddette “persone oneste” che non accettano Gesù Cristo come personale Salvatore sono altrettanto perdute. Il peccato non è solo un’azione sbagliata o l’omissione di compiere ciò che è bene, è soprattutto la condizione interiore dell’uomo, uno stato di corruzione e di separazione da Dio, una costante e debilitante condizione di inimicizia con Dio. Questa condizione porta inevitabilmente ad essere “privi della gloria di Dio”. Leggiamo in Romani 6:20-21: “Perché quando eravate schiavi del peccato, eravate liberi riguardo alla giustizia. Quale frutto dunque avevate allora? Di queste cose ora vi vergognate, poiché la loro fine è la morte. Ma ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per frutto la vostra santificazione e per fine la vita eterna; perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore.” Paolo esorta i credenti di Roma a guardarsi indietro e a riflettere sulla loro vita passata senza Cristo: erano schiavi ed il loro padrone era il peccato. La schiavitù del peccato produce nell’uomo un senso di vergogna e di rimorso che conduce inesorabilmente alla morte. Non solo quella fisica, cioè la separazione dell’anima e dello spirito dal corpo, bensì a quella spirituale, cioè la separazione dell’uomo da Dio e come estrema conseguenza a quella eterna cioè la separazione permanente del peccatore dalla presenza di Dio in un tormento eterno. L’evidente contrasto tra servire il peccato e servire Dio si evince nella contrapposizione dei due vocaboli “salario” e “dono” . Al peccato segue la meritata remunerazione, mentre la vita eterna è un dono immeritato e gratuito da parte di Dio a chi lo riceve da Gesù Cristo che lo ha reso accessibile.
La chiamata di Dio a testimoniare “Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Voi siete testimoni di queste cose. Ed ecco io mando su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi, rimanete in questa città, finché siate rivestiti di potenza dall’alto” (Luca 24:46-49). Prima di ascendere al cielo Gesù affidò ai credenti la missione di raggiungere tutti gli uomini presentando loro il messaggio dell’Evangelo della grazia. Prima di dare le ultime istruzioni, Gesù aprì la mente ai discepoli affinché intendessero le Scritture e che il loro adempimento segnava l’inizio del tempo della grazia e che la buona notizia doveva essere proclamata. I peccatori non conoscono l’offerta della salvezza, pertanto solo chi l’ha già sperimentata può testimoniarla. Perciò è imprescindibile per i credenti andare e annunciare il ravvedimento e la remissione dei peccati. Non è sufficiente parlare di pace, gioia e guarigione, affinché l’opera di evangelizzazione sia completa è fondamentale far comprendere la necessità di pentimento e ravvedimento. Tale messaggio deve essere predicato “nel Suo nome”, cioè con l’autorità di Cristo. Per conseguire tale autorevolezza è necessario che si compia la promessa della discesa dello Spirito Santo. “Quelli dunque che erano riuniti gli domandarono: Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele? Egli rispose loro: Non spetta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità. Ma riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra” (Atti 6:6-8). I discepoli dunque devono comprendere che la priorità è ricevere il battesimo nello Spirito Santo, piuttosto che pretendere di conoscere cose che sono sotto la stretta giurisdizione del Padre. Sempre dalle Scritture evinciamo che il mandato presuppone un’espansione concentrica, dall’interno verso l’esterno. Così come i discepoli dovevano partire da Gerusalemme per poi raggiungere la giudea, la Samaria e l’estremità della terra, così noi siamo chiamati a testimoniare in casa nostra, nel nostro condominio, sul posto di lavoro, a scuola, nella nostra città …
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